Dai Gridi all’Abbaco
di Pierre Restany
(estratto dal testo pubblicato nel catalogo della Retrospettiva di Gianni Bertini al Centre National des Arts Plastiques, Parigi, ottobre-novembre 1984)
Bertini, un caso a parte ancora oggi Gianni Bertini è un fenomeno a parte nell’arte contemporanea, un “caso”, come ho detto in diverse riprese, lungo tutta un’amicizia di trent’anni. Fenomeno caratteriale, prima di tutto.
In Bertini l’essenza e l’esistenza si incrociano e tessono una trama serrata, un meccanismo dialettico della coscienza che opera su tre livelli: 1/ mosso dall’istinto, il poeta immagina ed “inventa”; 2/ l’uomo esistenziale vive al ritmo della sua invenzione e si appropria della sua essenza; 3/l’essere bertiniano medita sull’esperienza e ne trae la doppia lezione, filosofica e pratica.
Cercate un po’ di immaginare la proiezione di questa griglia operazionale su 35 anni di vita, di carriera e di pratica artistica: è una tripla vita di uomo che l’artista pisano ha condotto ai quattro angoli del mondo, dalla sua Italia natale ad Amsterdam e a
New York, dalla Svezia all’Argentina e al Marocco, nel nostro dopo-guerra ed oltre, a cavallo di tre generazioni.
E se, oggigiorno, la peregrinazione bertiniana si è fissata sull’asse Francia-Italia e più precisamente Milano-Parigi, questo restringimento del percorso non ci deve creare illusioni: il caso Bertini è sempre là, e sempre altrettanto presente, sul triplo piano dell’istinto, dell’esistenza e dell’essenza.
L’immagine del destino e il destino dell’immagine
L’immagine, la parola è stata tolta. Il destino di Bertini è il destino dell’immagine. Egli vive il dramma interno dell’immagine all’interno della nostra civiltà dell’immagine.
Dall’emergenza all’obsolescenza, egli ne segue la curva espressiva, l’impatto linguistico, la proiezione socio-culturale, i differenti stadi di recupero, di assimilazione formale e di significativo consumo. L’impatto, lo stile, il cliché: quante volte questo scenario si è ripetuto nel percorso bertiniano, inserendosi con un’impietosa chiarezza nel cuore del suo pensiero creativo e provocando ipso facto delle nuove prese di coscienza?
Queste prese di coscienza inquadrano l’opera: sono i “Gridi” (1948-49), la contrazione sistemica degli anni ’50, il “Pays Réel” (1962), e la “Mec-art” (1965), “Abbaco” (1976). I limiti hanno stimolato attivamente la mia stessa riflessione, e posso dire che spesso le nostre visioni, mie e di Gianni, hanno coinciso perfettamente. La frequenza positiva di questo genere di scambi è tale che ne è risultato un intreccio ed una comunicazione profonda fra noi.
Conoscendo la chiarezza interiore e lo spessore del giudizio bertiniano, io mi sono a lungo domandato il motivo per cui non gli sia stata resa maggior giustizia dai suoi contemporanei. A forza di gridare nel deserto che Bertini non era al suo posto, sono esausto. E ciò per due motivi. Primo perché è defatigante recitare il ruolo del Don Quichotte e difendere contro venti e maree, a cinquant’anni suonati, qualcuno che si è già conosciuto in piena forma venticinque anni prima. E poi, perché non è necessario fare alcunché: ho capito che Bertini non aveva bisogno d’aiuto, né del mio, né di nessun altro.
L’artista che si identifica col destino totale dell’immagine assume la condizione dell’uomo solo davanti al mondo. Dall’uomo solo davanti al mondo all’uomo solo nel mondo, non c’è che un passo. Se voi siete capaci di accettare la condizione di questa solitudine, prendetevela con voi stessi: nessuno vorrà capirvi; si andrebbe troppo lontano, per cosa poi?
Bertini, marginale nella sua stessa storia
Bertini è stato e sarà l’eterno marginale (cosciente) della sua stessa storia, della successione degli stili, dei periodi e dei momenti dell’iconografia contemporanea che egli ha previsto e all’elaborazione dei quali ha personalmente contribuito. I suoi diversi compagni di strada sono stati spesso sconcentrati dal suo sorprendente potere di straniamento verso le cose che gli erano sembrate più care, e che lo erano state, effettivamente, ma fino ad un certo punto, nello spazio e nel tempo della sua stessa visione. Essi hanno preferito attribuire le ragioni di questo apparente eclettismo ai paradossali salti d’umore d’una intelligenza tutta toscana. Salti d’umore, dicono ugualmente a proposito dell’impressionante repertorio delle sue attività esplose nel campo editoriale e della performance, i suoi ripetuti contatti con il mondo della letteratura, sia per la saggistica che per la poesia sperimentale e visiva.
Prima di tutto io penso a tutti i poeti (buoni e cattivi) di cui è amico, a tutti i libri (buoni e cattivi) che ha pubblicato, a tutte le raccolte di poesie (buone e cattive) che ha illustrato, e poi alle riviste d’avanguardia (da Mec a Lotta Poetica) che ha pubblicato, o alle quali ha collaborato strettamente, e, infine, alle azioni poetiche o agli happenings dei quali fu protagonista. La lista è lunga, dallo Strip-tease poetico (1960) e delle Avventure di Telemaco (1963),
alle Comunicazioni Interdisciplinari (Milano 1971-72), passando per il famoso Festival di Fort Boyard, festival immaginario che era reale soltanto nei manifesti che annunciavano il suo programma “bidone” (1967). Mi scriveva ancora l’anno scorso una lettera delirante per propormi di partecipare nell’estate 1981 a Venezia, ad una action-streap psico-mentale! In quanto ai libri, non ne parliamo… Quante opere, opuscoli, saggi, cataloghi su Bertini, fatti da Bertini, per Bertini – senza contare la monumentale monografia pubblicata dall’editore Prearo nel 1971, e presentata in un tram-party a Milano! “Parola mia, si sta tessendo un omaggio perpetuo!” esclamai nel 1966 dimenticando che io sono uno dei principali artefici di questo monumento bibliografico.
Su Bertini
Da Bertini
Per Bertini
Cedo al mio stesso narcisismo e rileggo alcuni dei miei testi cardine su Bertini: il saggio delle edizioni Kamer (1957), il libro della collezione del Musée de Poche (1962), la prefazione del Pays Réel (1962), l’Hommage à Nicéphore Niepce (manifesto Mec-art 1965).
Al di là dell’esplosione esistenziale, l’immagine bertiniana riprende a poco a poco la densità, la coerenza, la logica di un destino totale. Questa rilettura assume il valore di una vera celebrazione.
Non è possibile definirla meglio! Un’occhiata alle date dei manoscritti è sufficiente. Ho terminato il testo di Kamer il giorno di Natale 1956, poco prima di prendere il treno con Gianni e Yves Klein per Milano via Torino. Noi trasportavamo con le nostre mani tutta la mostra monocroma dell’epoca blu prevista alla Galleria Apollinaire per il 2 gennaio 1957 e avremmo salutato passando Adriano Parisot, l’eroico editore della rivista I Quattro Soli, una delle rare tribune libere accessibili all’epoca, e che Bertini sosteneva con tutte le sue forze. Io ho scritto la prefazione del Pays Réel il giorno di San Silvestro 1961 a Barcellona dove ero andato a vedere i due cugini Tàpies e Cuixart, che esponevano ancora nella stessa galleria René Métras. Concludevo così degnamente un anno in gran parte consacrato alla celebrazione di Bertini, poiché avevo dedicato l’intero week-end pasquale, dal venerdì santo al lunedì di Pasqua 1961, alla redazione definitiva del manoscritto del Musée de Poche, e durante l’autunno, avevo messo in risalto Bertini nella mostra organizzata alla Galerie Arnaud in occasione della presentazione a Parigi del mio libro, Lyrisme et Abstraction, apparso nel 1960 a Milano. Meglio ancora, avrebbe avuto uno dei premi Lissone, istituzione venerabile e venerata nell’Italia dell’epoca. Se io avessi potuto vincere l’ostinazione di uno dei miei colleghi di giuria nel 1961. Perché, mi direte voi, una tale minuziosità nel ricordo? Perché sto realizzando, nello scrivere queste righe, che siamo in piena settimana santa: dopo Pasqua 1961, Pasqua 1982. Decisamente!