Siamo nel novembre 1983 a Parigi, Gianni Bertini e io, nel mio nuovo appartamento […]. Ho avuto modo di vedere, una decina di giorni fa a Milano nel suo studio, le sue nuove opere. In rapporto con Abbaco e alle opere ad esse legate, si tratta a prima vista di un ritorno a una sorta di normalità che corrisponde al pezzo forte del suo linguaggio, sta a dire una volontà di sintesi tra la gestualità di tipo espressionista astratto e l’uso dell’immagine fotografica come supporto narrativo integrato organicamente ai ritmi strutturali del gesto.
Tornando a una fase classica della sua opera, Gianni Bertini fa autocritica e al tempo stesso auto-analisi; il ritorno alle origini del suo linguaggio gestuale e iconografico fa di Bertini un creatore che si mette in posizione privilegiata, sia analitica che critica, vis-à-vis con la sua opera. Ne risulta molta più chiarezza sia nel metodo e sia nella fattura. I due elementi, l’elemento iconografico e l’elemento gestuale, sono ordinati in parallelo e sono l’oggetto di una sintesi strutturale.
Mentre si poteva dire che nel periodo classico precedente il gesto si situava in posizione dialettica in rapporto all’immagine e viceversa, oggi si può dire che l’immagine si trova totalmente integrata alla potenza, alla velocità e alla strutturazione del ritmo gestuale. È evidentemente il frutto di un’esperienza ritrovata. In questa volontà di tornare alle fonti del suo linguaggio, Gianni Bertini ha cercato dapprima un certo conforto.
Conforto dopo l’angoscia dovuta all’assenza di un’eco e una risonanza dal pubblico del periodo precedente. Periodo precedente che aveva vissuto in modo estremamente forte dal punto di vista esistenziale; aveva vissuto allo stesso tempo con il cuore e con la mente e i risultati si erano rivelati assai scarsi; soprattutto Gianni aveva sentito crearsi intorno a lui uno stato di solitudine, una sorta di muro di silenzio e incomprensione.
C’è un momento a partire dal quale ha voluto a tutti i costi uscire da questo circolo incantato, rompendolo, in modo da ritrovare una più normale via di comunicazione. D’altronde questo problema del soffocamento del silenzio, non fa scordare che Bertini l’aveva vissuto all’inizio della sua carriera nella serie profetica iniziata a Pisa dei suoi Gridi.
Ciò che può apparire sul momento come una sorta di compromesso con la società, una volontà di ritrovare un dialogo possibile con gli altri, testimonia anche col passare del tempo, del permanere di un ritmo profondo, di una oscillazione pendolare: la costanza ritmica del pensiero creatore e la programmazione bertiniana. Ci sono dei momenti in cui l’artista si sente capace di assumere delle posizioni estreme dal punto di vista mentale e anche sentimentale, e ci sono altri momenti in cui l’artista si ricorda che è prima di tutto un artigiano della comunicazione visuale. L’artigiano di una comunicazione senza comunicazione è un paradosso: un paradosso dopo tutto logico. È dunque in questo andare e venire tra due poli estremi della sensibilità e della visione, che si situa l’approccio e l’equilibrio creatore di Gianni Bertini.
Non è l’unico a corrispondere a questo schema. È uno schema classico del pensiero creatore. Ciò che posso dire in tutti i casi – essendo un amico intimo e fraterno di Gianni, ed essendo stato testimone della sua opera, del suo sviluppo, dei suoi dubbi, come delle sue certezze – è che vive il ritmo con una fortissima potenza emozionale. Questa potenza emozionale, al di là della cultura, al di là del savoir-faire e del mestiere, è senza dubbio ciò che dona a Bertini un colore umano estremamente particolare, e allo stesso tempo, penso, una sorta di “giovinezza”; metto giovinezza fra virgolette, se si può chiamare giovinezza in un creatore quella disposizione a rimettere tutto in discussione, e anche quella possibilità, quella volontà, quel bisogno, quel desiderio, quella preoccupazione di identificare la sua vita al ritmo stesso del lavoro e della produzione.
In ogni caso interpreto questo tentativo di rinnovare il dialogo come un segno di speranza, come una sorta di supplemento d’ottimismo in seguito a un momento di grande depressione. Penso che questo ottimismo è la salute dei poeti e che Gianni Bertini ha ritrovato una salute che è ben altra cosa dalla salute biologica, come anche materiale, ma è
una voglia di dialogo, un desiderio di comunicazione normale, il bisogno di un contatto fraterno più spontaneo e diretto.
Pierre Restany, in Bertini, editeur George Fall, Parigi 1984
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Con il passare dell tempo le giravolte di Bertini prendono consistenza e a 62 anni la sua carriera a zig-zag evoca un percorso dadaista. Ci fa pensare ad una sorta di Picabia moderno. Ad ogni tappa, Bertini, riprende le sue opere precedenti che integra nei lavori in corso per cui tutta la sua evoluzione assomiglia ai suoi collages, dove le donne nude si tuffano in un turbine di forme prorompenti. Artista in esplosione, Bertini fa saltare le frontiere. Con un buon umore provocante ci mostra che l’arte è un puzzle che acquista il suo senso reale quando è piazzato l’ultimo pezzetto.
Otto Hahn, da “L’Espresso“, Parigi 26 ottobre 1984
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Evolvendo negli elementi, Bertini si accosta alla vita con una certa elasticità, probabilmente perché la creazione deve avvenire con una certa noncuranza. Con la riprova del tempo, le intuizioni nervose, le impennate dell’immaginario, sono spesso più chiarificatrici del ragionamento accuratamente costruito.
Anne Tronche, Presentazione della mostra Rétrospective, 1984