Nella prima metà del 1949 Bertini inizia una libera corrispondenza con Ungaretti, Perilli, Dorazio, Guerrini, Gaspare del Corso conosciuti durante un breve soggiorno a Roma nei primi mesi del 1949, a Venezia e Milano con Carlo Cardazzo e poi con la libreria Salto e con tutto il gruppo MAC.
Così come inizia proprio in questo anno cruciale, il 1949, l’attività come critico e teorico d’arte contemporanea, impegnato a collaborare prima con “Rassegna” poi con “Numero” di Firenze e “I 4 Soli” di Torino, attività mai sospesa, nemmeno oggi, a dimostrare che in lui l’immagine visiva e parola critica hanno sempre coesistito. Il vero contatto con il gruppo milanese del MAC, fondato da appena un anno e conosciuto a Firenze alla mostra della Strozzina in cui esponevano tutti e tre i fondatori Dorfles, Monnet e Munari, si consolida proprio a seguito di un articolo pubblicato da Bertini a settembre dello stesso anno sulla rivista “Rassegna”. «Lo scritto – ricorda Bertini nel Memorandum. Il Mac Prolegomeni – centrò quello che si doveva intendere una ricerca in divenire: esso fu accolto con particolare interesse dagli artisti del MAC e fui inviato ad andare a Milano per un incontro. L’approccio avvenne in casa di Monnet. C’erano tutti raccolti per una specie di borghese party con tè e pasticcini. Comunque l’incontro si svolse in maniera del tutto benevola: seduta stante fu decisa la mia personale alla Galleria Salto, che si tenne il 19 novembre dello stesso anno. La presentazione alla mia personale – firmata da Seb Timpanaro – fu accolta con vivo entusiasmo. Timpanaro – personaggio rispettato dalla cultura italiana – fu la prima persona su cui potei contare veramente. Per età egli avrebbe potuto essere mio padre eppure con lui ebbi sempre discussioni aperte, accalorate, entusiaste, di grande chiarimento e sostegno. In quanto alla mia adesione al MAC va vista sotto due aspetti. Fintanto che vissi in famiglia, relegato in provincia, con il gruppo milanese – che stava andando forte – vi fu un rapporto di stretto fervore. A loro dava adito di affermare che ormai l’astrattismo si era esteso anche in provincia, mentre a me permetteva di avere un piede a terra a Milano».
Nel suo testo alla mostra Seb Timpanaro, oltre a portare un contributo fondamentale alla imperversante polemica contro l’astrazione e il concretismo, non ancora capiti «come non fu capito ai suoi tempi l’impressionismo» evidenzia di Bertini l’impegno come artista, la capacità di mettersi in gioco in ogni momento e in particolare la tensione di Bertini verso una «[…] pittura pulita, fine, melodica, come quella di Simone Martini, ma attuata con nuovi mezzi, con nuove forme, con nuove sensibilità».
La pittura di Bertini sta di fatto cambiando inseguendo un linguaggio decisamente purificato, stemperato, alla ricerca di una scansione ritmica e dinamica, in cui forma, segno, spazio e composizione perdono lo stridore e la crudezza dei Segnali. Bertini, così ci sembra, procede per “via di levare”: rinuncia infatti al collage, alle scritte, alla sovrapposizione di parole e immagini, all’oggettualità dei chiodi, delle borchie, dei coriandoli, della tappezzeria, presenti nei Segnali.
La sua pittura diventa, da un certo punto di vista, più “tradizionale”, almeno nelle tecniche se non nei risultati. Gli spazi compositivi acquistano maggior respiro, le superfici si distendono in stesure prevalentemente monocromatiche, la materia pittorica si appiattisce perdendo quella corposità che l’aveva caratterizzata fino a questo momento, il ritmo delle forme non è mai statico ma si articola di volta in volta secondo movimenti prevalentemente centripeti volti a condurre lo sguardo al di là dell’opera.
Nei dipinti del 1950 si nota la ricerca di semplicità compositiva e austerità formale, fino a giungere in alcuni casi a fondi monocromatici su cui linee rette si rincorrono spesso su elementari scansioni di positivo-negativo, pieno-vuoto, punto-linea. Come sempre anche in questo felice e breve momento Gianni Bertini accompagna le sue scelte espressive attraverso incisivi contributi teorici che inquadrano la sua posizione all’interno di un quadro ampio e articolato, non limitato ai soli esponenti del MAC.
Nel testo di auto-presentazione della mostra personale alla Galleria del Cavallino di Venezia, inaugurata nell’aprile del 1951, Bertini affronta alcune importanti questioni che servono quale chiave di lettura del suo fare artistico e offrono, come di consueto, incisivi contributi teorici al dibattito sull’astrazione. In primo luogo, da laureato in matematica, ridefinisce il rapporto fra arte e scienza, in particolare tra arte e matematica, smascherando senza mezzi termini il gioco di alcuni artisti che hanno utilizzato semplicemente alcune regole elementari della matematica presentandole come la ragione del loro fare. D’un fiato Bertini liquida senza mezzi termini tutte le presunte basi scientifiche della ricerca concretista: «[…] anche all’arte non-oggettiva urge però porre delle limitazioni […] senza le quali non sussiste validità ma inutile trastullo come per tutta la pittura figurativa. In effetti in questo ultimo torno di tempo è invalso un innegabile senso di compiacenza che ha spinto l’artista a parlare dei propri problemi come fatti in coincidenza con teorie scientifiche. […] si è immiserita la scienza portandola ad un livello da pettegolezzo tra coinquilini e cercando con ogni mezzo di bluffare allo scopo di mascherare dei risultati mediocri […] così di equivoco in equivoco si è giunti ad un fatto oggi molto corrente, cioè di giustificare molta pittura portando in discussione qualche elemento di geometria elementare quale la sezione aurea, il punto d’oro, la spirale di Archimede, la spirale logaritmica, la scissoide […] finendo addirittura per far coincidere i grandi problemi di un artista con qualche teorema da ragazzini […]» e per dimostrare la fondatezza delle proprie idee Bertini si addentra in una spiegazione tecnica che solo un matematico può dare, con lo scopo di “girare” le carte, alzare i veli, gridare al mondo dell’arte MAC che “il re è nudo”, senza mezzi termini o tentativi di giustificazioni teoriche. Per fare arte non servono gli schemi, i teoremi, la ripetizione e la semplice variazione dei moduli sperimentati, bensì la ricerca di un linguaggio che si innesti nelle urgenze del proprio tempo. Per quanto lo riguarda «il pittore deve immettere ancora nella propria opera elementi nuovi ed una struttura inedita […] urge ritrovare quell’equilibrio, sobrietà e rigore che va perduto ogni qualvolta si compie uno sforzo di svincolamento da canoni consueti. Cosicché le premesse della nostra cultura ci pongono, come condizione necessaria e sufficiente per la realizzazione di un’opera, proprio questo rigore di un esacerbato controllo (quindi semplicità e linearità) il quale potrà avere un domani ulteriore sviluppo, fatto questo negato a quella pittura non oggettiva poggiante su arbitrari impulsi momentanei».
Le opere MAC di Bertini, esposte anche a Venezia nella primavera del 1951 rispondono proprio alla necessità di una pittura semplice e lineare, elegante, costruita in qualche occasione da elementi mobili che si dispongono di volta in volta in maniera diversa, “a vanvera”, come dichiara il titolo di un’opera, ponendosi all’interno del flusso del tempo e delle sue variazioni. L’autopresentazione alla mostra della Galleria del Cavallino denuncia tuttavia un’irrequietezza tale nei confronti del concretismo convenzionale che sottintende la ricerca da parte di Bertini di nuovi linguaggi: di lì a pochi mesi Bertini brucia, come al solito, anche l’esperienza concretista allontanandosi con una velocità sorprendente anche da questo periodo.