Se non andiamo errati uno dei primi esempi è scaturito nel 1986: ne La forgia di Vulcano la figura ritagliata in negativo fa girare una ruota. Il personaggio è proiettato verso il mondo, annullato dal nero che lo determina. In tal modo il protagonista diviene una rotella inserita nel meccanismo compositivo: nero con nero, particolare di un particolare, segno da impastarsi nell’ordine/disordine più ampio. Ora la provocazione risiede altrove o non risiede affatto, ora prevale la filosofia del racconto. Non a caso tale tecnica è stata ampiamente adottata da Gianni Bertini nel ciclo sulla Guerra del Golfo. Ma in fondo anche questo è un metodo per evidenziare: più subdolo ma efficace, specie se lo si vuole misurare col metro del tragico. Anzi, funziona meglio di altri accorgimenti, a ben pensarci. Le “ombre” ambiscono a un discorso più assoluto, non impegnano nella contemplazione di un viso, di un bel corpo, ma riflettono l’idea, un comportamento, un’assenza, una perdita d’identità. E poi quello che succede a noi immersi nel magma della vita come nell’ingranaggio oscuro di uno di questi quadri. L’ombra allora determina la coscienza o il dolore o la coscienza del dolore: è il caso della serie su Antonin Artaud. Ma può significare anche memoria e fuga: due termini in apparente antitesi ma in perfetta simbiosi se li proiettiamo verso ectoplasmi di lessico familiare o di attraversamento fuggitivo di braccia e gambe. E come considerare il Bertini che si ritrae in profili di compiacente assenza? È appunto un compiacimento della sparizione quello che si richiede alla macchia? Parrebbe la contraddizione di chi ama apparire e promozionarsi. Ma è proprio così? Oppure è l’ombra la vera formula della sua arte rivolta all’eccesso e al ritaglio del nero? Certo che, spogliata del contorno e del “fuori registro”, i suoi quadri denunciano il dramma della società che li ha provocati.
La realtà è nelle ombre, insomma, mentre l’immagine di copertina fotografa la futilità dell’apparenza. «Una delle mie discipline riguarda la coltivazione della dimenticanza» interviene Bertini e precisa: «il cervello è come un grande contenitore o come un computer: se lo riempi di cose inutili è come se fosse un piccolo contenitore, se lo riempi di poche cose essenziali, anche con un piccolo strumento puoi avere una grande efficacia»; parafrasando in parte il concetto si può dire che le “ombre” sono la dimenticanza che si traduce in verità, sono le tante cose inutili o i dettagli convenuti in un elemento a determinarne l’efficacia.
L’”Ombra”, insomma, è la misura infinita del tempo, da vedersi come liberazione, come espiazione, come dramma esistenziale.
Luciano Caprile in Bertini, edizioni L’Agrifoglio, 1993